Un bel documentario da (ri)vedere sul grande schermo
A dieci anni di distanza dall'uscita del documentario di Bertozzi Rimini Lampedusa Italia che raccontava la storia poco nota dei pescatori lampedusani a Rimini, l'isola siciliana è diventata sempre più frontiera d'Europa nel Mediterraneo. Tante vite vi passano e tante si sono perse nel mare che divide e uccide.
Spesso gli abitanti di Lampedusa hanno mostrato nei confronti dei migranti una solidarietà che è andata anche contro le spinte repressive dei governi e la lontananza delle istituzioni europee.
Non casualmente il papa Francesco ha scelto Lampedusa come meta del suo primo viaggio dopo l'elezione.
Spesso gli abitanti di Lampedusa hanno mostrato nei confronti dei migranti una solidarietà che è andata anche contro le spinte repressive dei governi e la lontananza delle istituzioni europee.
Non casualmente il papa Francesco ha scelto Lampedusa come meta del suo primo viaggio dopo l'elezione.
Anni fa erano gli italiani che emigravano da Lampedusa a Rimini ad essere chiamati "maruchen".
E' interessante conoscere questo lato poco noto della città riminese e della storia, spesso rimossa, dell'emigrazione italiana.
Chi volesse vedere il film su grande schermo può approfittare della proiezione gratuita sabato 7 giugno 2014 alle 21 al Cinema Tiberio di Rimini. In sala ci saranno l'autore e alcuni dei protagonisti.
Altre informazioni sul sito:
Marco Bertozzi (Bologna, 1963) è un nome
noto nel panorama del documentario italiano. Al 21° Torino Film
Festival il suo Rimini Lampedusa Italia era in concorso. Poi sono venuti altri film molto interessanti tra i quali Predappio in Luce (2008) e Profughi a Cinecittà (2012). Bertozzi si occupa di documentari anche come docente
universitario, come critico e come storico del cinema del reale. Ha scritto molti saggi, ricordo tra gli altri quelli sullo spazio urbano nel cinema, su Olmi e sulla Storia del documentario italiano.
Ha curato per la Rai anche una serie di trasmissioni su documentari e cortometraggi: Corto Reale.
Il suo sito è marcobertozzi.it
Ecco cosa scrivevo per la rivista Frameonline e cosa raccontavano Marco Bertozzi e Natalie Cristiani a Torino nel 2004:
Attento all’antropologia del
vivere urbano, al 40° Pesaro Film Festival
vedemmo e apprezzammo Fieri… e basta (1999), indagine sulle tribù
giovanili riminesi, mentre a Locarno 2004 si è visto il suo documentario
di montaggio Appunti romani. Con Rimini Lampedusa Italia Bertozzi
stavolta affronta un aspetto davvero inedito della città adriatica ormai
sinonimo di Las Vegas italiana, come lo stesso Fellini scriveva nel suo Fare
un film: “Ora il buio non c’è più. Ci sono invece quindici chilometri di
locali, di insegne luminose: e questo corteo interminabile di macchine
scintillanti, una specie di via lattea disegnata coi fari delle automobili.
Luce, dovunque: la notte è sparita, si è allontanata nel cielo e nel mare”.
Bertozzi va a cercare
proprio quel buio del mare e lo fa scoprendo una comunità di pescatori
lampedusani che iniziò a immigrare qui quarant’anni fa, quando i riminesi
avevano abbandonato la pesca. L’integrazione non è stata facile, li chiamavano
“maruchen”, e ora sono loro a fare gli armatori e a dar lavoro a marocchini,
tunisini, eccetera.
Il regista riminese si
inserisce nelle loro vite, fatte di notti passate in mare, di ritorni
stagionali nell’isola natia, di tradizioni religiose e antropologiche resistite
al genocidio culturale in atto da almeno trent’anni, non solo in Italia, ahimè.
Non c’è voce over
onnisciente, il montaggio è molto aperto, si usano immagini riprese in digitale
sui luoghi e sui volti dei protagonisti e materiale di repertorio con
cinegiornali e spot d’epoca sulla Rimini capitale del turismo. Un linguaggio
poco televisivo e molto personale, forse qui e lì un po’ prolisso ma spesso
molto intenso. Indimenticabile la scena della notte in barca a contemplare la
natura mentre si lavora, o quella in cui i pescatori si rispecchiano nelle
immagini del documentario di De Seta Pescherecci che guardano al
videoregistratore, e commentano osservando i particolari di quelle imbarcazioni
di decenni prima; si sente il ritmo immutabile dei riti lavorativi che
nonostante tutto permane.
Incontriamo Marco Bertozzi e
Natalie Cristiani, montatrice di Rimini Lampedusa Italia, dopo la
proiezione e il dibattito al 21° Torino Film Festival, con un intervento
inaspettato di una giovane spettatrice lampedusana (manco fossimo in Sogni
d’oro di Moretti: con il pastore sardo, il bracciante lucano, e la
casalinga di Voghera!) che, attratta dal titolo, tra i pescatori del film ha
riconosciuto lo zio e ha apprezzato la verità dell’opera.
frameonline – (Iniziamo l’intervista con
una domanda a Natalie Cristiani) Come mai in un lavoro documentario come questo
avete scelto di lasciare il nero per diversi secondi in alcune scene, non
rischiate di perdere il ritmo?
natalie cristiani - Capisco che possa essere una cosa fastidiosa, ma è
un modo per dare delle pause di riflessione tra un argomento e l’altro. È una
punteggiatura molto più cinematografica, al cinema siamo abituati ad accettarla
più che in un documentario. Ma il montaggio di questo film ha avuto ritmi
abbastanza lenti e distesi. Soprattutto quando si lavora con materiale così
eterogeneo, girato anche male in alcuni casi, l’accelerare porta a falsare il
materiale, sembra che si voglia trasformarlo in quello che non è.
f. - Gli inserti televisivi nella barca: Bush e Blair,
le notizie dei Tg sulla guerra in Iraq sono delle sottolineature volute?
n.c. - Quella, sembra assurdo, è presa diretta casuale.
Marco è stato per alcune volte con i pescatori che stanno fuori in mare per
ventiquattr’ore e tengono il televisore acceso la notte, per cui passano da mtv a RaiNews24. Ci
piaceva questa scena, anche simbolicamente: i pescatori che facevano i nodi e
ascoltavano queste notizie di guerra, anche se eravamo sicuri che pochi
avrebbero creduto alla casualità della scena.
f. - Alla fine del documentario c’è un accenno agli
sbarchi dei migranti a Lampedusa e alle tensioni tra i no global e i
lampedusani durante le manifestazioni di Ferragosto. Però l’argomento viene
solo sfiorato. Come mai?
n.c. - Quella era un’altra storia che avrebbe avuto
bisogno di molto tempo, bisognava raccontarla bene e non era questo l’obiettivo
di Marco, l’oggetto del film erano i pescatori trasferitisi a Rimini.
f. - Tra l’altro rinunciate a cavalcare la tigre
dell’attualità.
n.c. – Ma, sai, Marco non è un giornalista di reportage,
dando molto spazio anche a quell’aspetto il film sarebbe diventato altro.
f. – (Mi rivolgo a Bertozzi, che
si è avvicinato) Parlavamo delle mie perplessità sulle pause in nero nel
montaggio.
marco bertozzi – Be’, il ritmo di questo
documentario non è affannato, c’è la fase kumbaka, come viene chiamato
dallo yoga il momento in cui, durante la respirazione, né si inspira né si
espira l’aria, ci sono dei “kumbaka di montaggio”.
n.c. – Non mettere la frase sul kumbaka!
m.b. – No, invece mettila.
Puoi
respirare per quattro battiti, poi stai fermo per quattro battiti (kumbaka),
infine espiri. Qui c’è questo kumbaka al nero.
f. – De Seta di cui usi alcune immagini,
è un tuo modello di cinema?
m.b. – De Seta è un grande maestro,
i suoi documentari degli anni Cinquanta andrebbero mostrati obbligatoriamente a
tutti quelli che vogliono fare cinema nel mondo. (Ride). Poi lo conosco
personalmente, è stato gentilissimo a concedermi l’utilizzo delle sue immagini,
abbiamo anche organizzato una grande retrospettiva in aprile a Roma di tutti i
suoi film, da Diario di un maestro agli ultimi.
Una scena da Diario di un maestro
f. - Come è nata l’idea di fare un film su questa comunità
di pescatori lampedusani a Rimini?
m.b. – Ho scoperto l’esistenza di questa comunità da un amico
insegnante che aveva notato alcune difficoltà, anche linguistiche, dei ragazzi
provenienti da questa comunità.
Sono temi che mi interessano,
ho sempre fatto film o su città o su situazioni di contaminazioni culturali, da
Note per quattro amici, il mio primo documentario prodotto da Olmi
che vinse Anteprima nel 1993: era la storia di quattro amici che vivevano un
orizzonte di intrecci culturali perché nati da genitori di diverse nazionalità
e venuti in Italia da piccoli, quindi con degli slittamenti identitari anche
tragici per loro. Poi ho fatto un documentario sulla comunità cingalese di
Bologna, insomma per me è sempre stata una passione.
f. - Nel film ricorre spesso l’elemento della
processione, della madonna, della devozione popolare che qualcuno tra il
pubblico ha visto come fanatismo. Per tale aspetto ti sei rifatto al cinema di
Fellini e di Rossellini, che avevano un occhio attento all’Italia intrisa di
religiosità arcaica?
m.b. – No, non ho mai pensato a questi nomi. Quelle scene
della processione nel finale del documentario colpiscono perché re-innescano un
irrazionale che noi abbiamo pensato di poter controllare attraverso un approccio
razionale alla vita. Non è importante essere cattolici o musulmani, secondo me
c’è un elemento antropologico che è la necessità del rituale. I nostri rituali
istituzionalizzati sono lo sballo il sabato sera in discoteca, lo stadio la
domenica pomeriggio, tra l’altro ben legati al business. Qui c’è un rituale,
un’appartenenza identitaria forte che sarà certamente destinata a slabbrarsi,
c’è qualcosa di tribale che non attiene al pensiero moderno della modernità
come controllo razionale del mondo. Io, tutte le volte che vedo queste scene,
mi emoziono.
f. - Citavo Fellini e Rossellini
proprio perché loro furono capaci di far vedere questo aspetto, che nel cinema
italiano successivo è pressoché scomparso, semmai relegato a folclore per
turisti.
m.b. – Certo. Infatti per questo è
importante De Seta, perché lui posa lo sguardo sulle culture subalterne, sui
rituali che sembravano dover scomparire per questa modernità così rapida, così
violenta, così importata, che aveva invece come etica unificante l’italiano della
televisione e la società dei consumi. Attraverso queste due cose gli italiani
sono diventati italiani e si sono dovuti vergognare delle loro molteplici
appartenenze. Questa tradizione dei lampedusani, conservata anche nella loro
vita riminese, è una specie di miracolo.
f. - Volevo sapere cosa pensi dell’attuale situazione
schizofrenica del documentario in Italia, tra successi statunitensi (Moore su tutti, ma anche The Corporation e altri) e
una situazione languente dal punto di vista produttivo e distributivo del
documentario italiano ed europeo.
m.b. – Mai come in questo periodo c’è uno iato enorme tra
una nuova consapevolezza e le possibilità produttive e distributive. È un po’
il solito discorso sulla mancanza di Tele+ che garantiva una prima percentuale
per avviare feconde politiche produttive e poi anche di visibilità, perché
Tele+ mostrava il tuo film. C’è anche un altro rischio: ed è quello che questa vague
documentaria si riferisca solo a contenuti e non a un’idea di cinema. Sembra
che il documentario serva solo a denunciare qualcosa, deve essere un film di
impegno sociale e basta. Invece può essere diario intimo, film saggio, cinema
di ricerca, può essere tantissime altre cose. Per cui c’è questo sviluppo del
documentario, però non vorrei che passasse solo come contro informazione,
altrimenti ci limitiamo al reportage che poi la televisione fa normalmente.
Forse la nostra idea è di rivolgerci più al cinema, anche con questi tempi del
montaggio più distesi.
f. - Come hai fatto ad avere
questa fiducia da parte dei pescatori?
m.b. – Questa è una qualità che
matura superando il tempo dell’imbarazzo e il tempo della “messa in scena
immediata delle situazioni”, devi stare senza una finalità in tempi brevi,
riflettere con loro. Ad esempio, una cosa che ti stupirà era un livello di condivisione
molto grande sulla bellezza in termini naturalistici: del mare, dei tramonti.
Trovare dei luoghi di incontro, in questo caso anche estetici, ha definito una
qualità dello stare insieme, per cui loro si sono lasciati andare e sono stati
a loro agio durante le riprese.
(da Frameonline, 04/12/2004)