Mentre si conclude con ascolti da record e grandi polemiche la serie tv tratta da "Gomorra", 12 episodi diretti da Sollima (7), Cupellini (3) e Comencini (2), polemiche nelle quali non entro non avendola vista, rimando alla prima trasposizione del libro di Saviano che, nel 2008, venne diretta da Matteo Garrone.
Film per il grande schermo che vinse meritatamente il Gran premio della giuria a Cannes.
Il film racconta alcuni aspetti del libro di Roberto Saviano, un'opera lucida e disturbante che ho letto con interesse e con dolore perché descrive bene come i tentacoli della camorra arrivino a tanti campi del nostro vivere quotidiano e non si limitino certamente alla terra dei fuochi.
D'altro canto di una "linea della palma", scriveva già nel 1961 Leonardo Sciascia ne "Il giorno della civetta", a proposito della criminalità mafiosa che colonizzava territori lontani dalla sua Sicilia; ormai la sua profezia è pienamente avverata.
Credo sia utile che libri e film mantengano gli occhi aperti su tali fenomeni, possibilmente senza farlo in maniera didascalica o furba ma usando al meglio i loro rispettivi linguaggi.
Capacità che certo non è mancata a Matteo Garrone.
Qui ripropongo una mia intervista al regista romano (classe 1968) uscita su frameonline poco prima del suo viaggio a Cannes.
Tra l'altro è interessante vedere come fu lo stesso Garrone a immaginare per primo una trasposizione del libro in dieci puntate televisive, accettando poi la richiesta del produttore Procacci che preferiva un'opera per il cinema. Quello stesso produttore che ora è dietro la serie tv di Sky-Atlantic.
Intervista a Matteo Garrone.
«Gomorra», gangster movie rosselliniano
di Giovanni Petitti
Frame OnLine - Com’è nata l’idea di
trasporre Gomorra di Roberto Saviano? È stata una tua scelta o
una proposta produttiva?
Matteo Garrone - Entrambe le cose. Domenico Procacci aveva
acquistato i diritti del libro ancora prima che venisse pubblicato.
Il libro mi ha colpito soprattutto per la
rappresentazione di una realtà che in qualche modo mi riportava a un mondo
arcaico, antico, quasi mitologico.
Come Saviano nel libro è riuscito a riscrivere
l’immaginario legato alla camorra, io avevo l’ambizione di riscrivere un
immaginario che il cinema ha sempre raccontato attraverso una serie di luoghi
comuni. Volevo raccontare quel mondo visto dall’interno.
Poi avevo voglia di misurarmi con un film d’azione,
anche se non so fino a che punto lo si possa considerare un film di genere.
L’idea di lavorare su un gangster movie ce l’avevo sempre avuta e questa mi
sembrava l’occasione giusta, anche perché ero piuttosto libero dal punto di
vista drammaturgico.
Fol - Ciò che colpisce della tua
trasposizione, che giustamente non è illustrativa, è che nel film si trova
molto meno dolore e cupezza rispetto alle pagine di Saviano. È un film duro,
violento, forte, ma con una sua vitalità e una sua luce…
M.G. - Questo aspetto è sempre
difficile poterlo controllare mentre giri un film. Prima, abbiamo ipotizzato
una sceneggiatura qui a Roma, lavorando con Saviano, Braucci, Gaudioso,
Chiti e Di Gregorio.
Poi, andando lì in Campania, tante cose le ho dovute
verificare sul campo e sicuramente uno degli aspetti che mi aveva colpito era
proprio questa contraddizione: la vitalità e il senso di morte che incombe ma
che quando stai lì quasi non percepisci. Quella realtà lì fa molta più paura
dall’esterno, senza conoscerla, piuttosto che nel momento in cui ci vivi
dentro.
Anche la vitalità che è emersa ho cercato di non
ostacolarla, di non avere nessun pregiudizio, nessun tipo di intento
sociologico o di denuncia. Ho cercato di cogliere tutti gli aspetti più
importanti, cercando di mettere l’idea figurativa, l’immagine, sempre davanti
all’aspetto, all’informazione. Ne è venuto fuori un affresco di cui sono stato
consapevole fino a un certo punto, perché come hai visto il film è composto di
tante realtà, di tante facce diverse a seconda dei luoghi in cui giravo.
Si potrebbe quasi dire che io abbia visto il film
per la prima volta nel momento in cui ho messo insieme tutti questi tasselli.
Ho provato a concentrarmi sull’aspetto umano, su
temi che possano essere riconoscibili per chiunque. Poi ho anche scelto di
raccontare dei personaggi dal basso, come se gli dèi non apparissero mai. I
boss non si vedono quasi mai, si percepiscono. Ho tentato di raccontare attraverso
queste vite come esse vengano condizionate da quest’ambiente, da questa realtà,
da queste regole, da questo sistema, trovandosi a volte quasi inconsapevolmente
all’interno di un ingranaggio.
Quando giravo mi sembrava di girare un film di
guerra.
Le tensioni e le preoccupazioni venivano fuori anche
dai dialoghi, che avevano dei margini di improvvisazione, dei termini che
rimandavano a una realtà bellica, come ad esempio quando uno dei ragazzi ha
usato l’espressione: “Partiamo dalla nostra roccaforte”.
Fol - Hai sicuramente dovuto
fare delle rinunce rispetto alle tante storie raccontate nel libro…
M.G. - Secondo me una
trasposizione ideale di questo libro poteva essere quella tipo Decalogo,
dieci puntate per la televisione di un’ora ciascuna, che avrebbero dato il
tempo necessario per sviluppare ogni storia. Questo è stato il mio suggerimento
a Procacci, ma lui voleva fare un film per il cinema. Io ho detto:
“Proviamoci!”, ma non ero affatto sicuro di riuscire a restituire in due ore la
potenza dell’affresco che esce dal libro. Dovevano essere sei storie, poi alla
fine una l’abbiamo tagliata e ne sono rimaste cinque.
Fol - Una delle scene forse
più toccanti e significative è quella della contadina.
M.G. - La contadina mezza folle
che coltiva le pesche inconsapevole dei veleni nascosti nel terreno sembra
quasi un personaggio shakespeariano: la matta che, però, parlando quasi tra sé
dice la verità: “Cosa sono questi buchi? Ci deve essere una talpa!”.
Fol - Qual è il tuo metodo di
lavoro?
M.G. - Il mio modo di lavorare è
stato simile in tutti i film che ho fatto: sceneggiatura, fase di ripresa,
montaggio. Poi rivedo il film con i montatori, riscriviamo tutta una serie di
cose che non ci piacciono, ritorno a girare. È un po’ come il lavoro
artigianale nella pittura: per arrivare a una tonalità si usano tanti colori
diversi, attraverso diversi strati di colore si ottiene la tonalità desiderata.
Fol - Tornando al rapporto con
il libro, non pensi che per la camorra il film sia molto meno scomodo del libro
di Saviano perché insiste di meno sulla denuncia dei vertici?
M.G. - Io ho fatto un film
sull’uomo, il problema della denuncia non me lo sono posto, quello è legato al
linguaggio.
Come spettatore mi capita di trovarmi davanti a un
percorso opposto, cioè vedo film che dicono che la camorra è cattiva ma sono a
tal punto privi di impatto emotivo da rimanere qualcosa di inconsistente.
In questo caso mi sembra di aver raccontato, non
attraverso le parole ma attraverso i personaggi, questo ingranaggio, la
dimensione animalesca della realtà, ma senza indicare il buono e il cattivo.
Anche perché questa è una delle cose che mi ha più colpito, esiste tutta una
zona grigia in cui legalità e illegalità si confondono.
Fol - Sei pessimista sulla
possibilità di vincere la lotta contro la camorra?
M.G. - C’è una tale sfiducia
rispetto alle istituzioni, un’estrema povertà piuttosto che un’ignoranza, tutta
una serie di fenomeni bisognerebbe vedere fino a che punto pilotati, tutta una
serie di fattori per cui la camorra può apparire come un elemento di sostegno
economico.
È come la metafora del contadino che non ce la fa
più a pagare i debiti, per cui affitta il suo terreno per farci seppellire i
rifiuti tossici, ma muore di cancro e non ne è nemmeno consapevole.
Fol - La malavita organizzata
è un cancro e nello stesso tempo una fonte alimentare?
M.G. – Sì, e trova un terreno
fertile dove c’è una realtà arcaica, dove vi sono lotte tra soldati, i
camorristi sono come samurai che sanno di avere forti possibilità di non
arrivare alla vecchiaia, che forse passeranno la loro vita in carcere, ma
combattono lo stesso per il potere.
Poi, sarebbe molto interessante indagare il rapporto
tra loro e la politica, che nel libro da Saviano viene abbozzato ma quasi mai
affrontato.
Fol - La rappresentazione dei
personaggi camorristi è spesso diversa rispetto a quella a cui siamo abituati
dagli stereotipi.
M.G. - Il look dei camorristi è
cambiato, hanno la fisicità del modello, tra la De Filippi e il
calciatore.
La malavita è cambiata antropologicamente allo
stesso modo di come sono cambiati i calciatori. Se prendi un album delle
figurine degli anni Settanta vedi le facce: sono molto più marcate di quelle di
oggi. Hanno subito un mutamento, Pasolini lo
diceva già nel 1975.
Fol - È come se fossero un po’
plastificati.
M.G. – Sì, non a caso il prologo
racconta il film, perché la carneficina al solarium è l’equivalente di ciò che
un tempo era la strage dal barbiere.
In sceneggiatura, la scena del solarium non c’era, è
venuta fuori riflettendo sulla mutazione del look malavitoso. C’era solo l’idea
di una faida interna, amici che si sparano tra loro. Ormai non esistono guerre
tra clan ma solo spaccature interne.
Fol - Quando il libro di
Saviano ha avuto tutto quel successo hai avuto paura di rimanerne schiacciato?
Fol - Saviano ha dato qualche
suggerimento linguistico, per esempio sul dialetto?
M.G. - Sì, ci teneva molto che
venisse fuori il dialetto di Casale, sfumature che nel cinema non si erano mai
sentite.
Fol – Conoscendo il romanzo di
Saviano, gli abitanti delle zone dove è ambientato il libro come hanno preso il
fatto che ci girassi un film?
M.G. - C’è da dire che il cinema
apre tantissime porte. Tant’è che anche Saviano racconta di come la malavita
prenda il gusto dal cinema; è la criminalità a formarsi su modelli
cinematografici, come Scarface di De Palma. Infatti, c’è la scena
nella villa di Schiavone, che il boss si era fatta costruire pretendendo che
l’architetto la copiasse da quella di Scarface. Credo, che da parte
della camorra ci sia una grande attesa per il film, ma più narcisistica che di
preoccupazione per i contenuti.
Ho percepito anche ostilità e chiusure da parte di
alcuni, non tutti mi hanno aperto le porte. Il mio percorso cinematografico è
sicuramente stato seguito in maniera invisibile dalla camorra. Anche a Scampia
abbiamo avuto l’appoggio di molti, nonostante vi fosse stata una grande
speculazione mediatica su Scampia che aveva infastidito gli abitanti.
Comunque, durante le riprese per evitare di essere
scambiati per poliziotti andavamo in giro con un passi. Un giorno è successo un
episodio buffo: sul ciak il film si intitolava “Sei storie brevi”, proprio per
evitare, per cautela, il titolo del libro; ma uno dei ragazzi del luogo ci ha detto:
“Il titolo così non va, il titolo ideale dovrebbe essere ‘Gomorra’, sennò
‘Scission’”. Noi volevamo tenerlo nascosto, e proprio loro hanno suggerito il
titolo reale.
Fol - Come hai scelto gli
attori? Che percentuale c’è di attori non professionisti?
M.G. - La maggior parte sono
attori di teatro, per esempio Totò viene dall’esperienza teatrale di
Arrevuoto (Napoli) che ha coinvolto i ragazzi di Scampia portandoli in tournée
per tutta Italia. Poi ci sono attori che hanno recitato in carcere, altri provenienti
dal Grande Fratello, e poi quelli che hanno un percorso più
tradizionale, come Toni Servillo e Gianfelice Imparato. È stato
un grande mix di attori, la grande scommessa era riuscire a farli recitare
tutti insieme, dimenticando le loro provenienze.
Fol - Come si sono posti gli
attori professionisti rispetto agli interpreti meno noti o non professionisti?
Immagino che Servillo non abbia avuto atteggiamenti divistici.
M.G. - Servillo è un attore
straordinario, è stato molto intelligente e collaborativo, come quando abbiamo
girato la scena dell’incontro con il padre di Roberto.
L’attore che interpreta il padre non aveva mai
recitato, era un portantino che avevo trovato il giorno prima. Ovviamente, ero
preoccupatissimo perché non sapevo come avrebbe reagito, e la scena era
importantissima e complessa: accompagnava il figlio nel suo primo viaggio di
lavoro. Si doveva anche sentire l’estrazione popolare di Roberto, per far
capire come la scelta di abbandonare Franco potesse essere dolorosa per lui.
Siamo partiti con un primo ciack straordinario,
questo signore si è ricordato tutte le battute con tutti i tempi, e lì Toni
Servillo è stato un grande perché non si è sovrapposto.
Fol - Che tipo di difficoltà
hai incontrato durante le riprese?
M.G. - Io giro sempre in sequenza,
quindi dalla prima scena all’ultima. Di solito le prime scene sono le più
difficili perché gli attori non sono ancora dentro il personaggio, e anche da
parte mia ci possono essere indecisioni…
In questo caso qui, per ogni episodio avevamo due
settimane a disposizione, quindi un episodio finiva quasi sempre dopo la prima
settimana, quando si iniziava a ingranare e si doveva ripartire da capo con un
altro. Era molto difficile riuscire a centrare subito la storia, di conseguenza
è stato come sempre di grande aiuto tornare a rigirare una seconda e una terza
volta. Però, mentre nei film precedenti avevo personaggi che potevo raccontare
seguendoli per due mesi, qui avevo a disposizione solo due settimane.
Fol - Rispetto ai tuoi film
precedenti, girati con mezzi produttivi minori, con Gomorra hai potuto
rivolgerti a un grande pubblico, facendo un film che ha più livelli di lettura.
Ne eri consapevole mentre lavoravi?
M.G. - Quando giravo le scene,
dietro il monitor avevo sempre una discreta serie di gente del posto, e per me
era importante vedere se si riconoscevano, se si emozionavano, se la
rappresentazione comunicava loro qualcosa o era semplicemente fasulla, vuota.
Volevo che lo spettatore entrasse in quel mondo lì senza filtri, senza sentire che
lo sguardo del regista diventasse protagonista.
Lo stesso discorso vale per la musica: nel film non
c’è mai musica di commento, ma le musiche sono usate come suono di ambiente,
come le voci delle sentinelle. Lo stesso vale per il montaggio: abbiamo cercato
di usare il minor numero possibile di tagli, quasi sempre lasciamo che si segua
l’azione senza tagli interni, sono quasi tutti piccoli piani sequenza. Ho avuto
l’aiuto prezioso di Gianluigi Toccafondo, che mi “riportava all’ordine”
quando avevo qualche tentazione di ricercatezza stilistica.
Fol - Spesso stai dietro i
personaggi come se le sequenze fossero delle soggettive di un testimone diretto
delle azioni.
M.G. - Sì, sembrano le soggettive
di uno spettatore ipotetico. Per dare allo spettatore l’idea di vivere lì.
Fol - A quale personaggio del
film ti senti più legato?
M.G. - Mi sento legato un po’ a
tutti i personaggi, perché in ognuno riconosco qualche tema a cui mi sento
vicino, come Pasquale nel rapporto con la propria arte.
La scoperta di poter insegnare, comunicare. Mi piace la scena in cui, tornando a casa dalla moglie, le racconta dei cinesi “Cin ciun cian” che sanno cucinare, lo chiamano maestro.
La scoperta di poter insegnare, comunicare. Mi piace la scena in cui, tornando a casa dalla moglie, le racconta dei cinesi “Cin ciun cian” che sanno cucinare, lo chiamano maestro.
Amo molto anche la scena dell’auto che finisce tra
le statue di Padre Pio, delle Madonne.
Fol - Non temi di venire
rimproverato di avere stemperato il coté politico del libro di Saviano?
M.G. - Io vengo dalla pittura, la
forza dei grandi quadri non sta nell’aspetto delle informazioni che ti danno ma
in come sono dipinti. Ad esempio, I girasoli di Van Gogh hanno
una forza e una violenza anche politica molto maggiore di tutta una serie di
quadri del realismo socialista o di pittura di impegno. Ad avere valenza
politica non è ciò che si dipinge ma come viene dipinto.
L’arte che mi interessa di più deve lavorare nel
creare emozioni che oltrepassino il filtro razionale, anche nel film che ho
fatto. Ho cercato la stessa libertà anche in film come Estate romana, andava quasi verso l’astrazione, o per
meglio dire verso l’impressionismo. Era un poemetto.
Fol - Che modelli di cinema
hai avuto nel girare Gomorra?
M.G. - Un modello erano i reportage di guerra, oppure i documentari sugli animali.
M.G. - Un modello erano i reportage di guerra, oppure i documentari sugli animali.
Poi c’è sicuramente il Rossellini di Paisà. Dopo aver girato la scena
della prova di coraggio nella grotta, ho anche scoperto che lì Rossellini aveva
ambientato una parte dell’episodio napoletano.
Fol - Sbaglio o c’è anche
qualche riferimento a Pasolini?
M.G. - Sì, quando i bagnini
mettono i corpi dei due ragazzi nella scavatrice ho pensato ai burattini di Totò
e Ninetto che Modugno butta nella discarica in Che cosa sono
le nuvole di Pasolini Anche i due ragazzi sembrano due burattini.
(vedi clip del film di Pasolini: https://www.youtube.com/watch?v=rEI9rPcggOY)
(vedi clip del film di Pasolini: https://www.youtube.com/watch?v=rEI9rPcggOY)
Fol - Non c’è il rischio di
spettacolarizzare la camorra?
M.G. - Poteva esserci, ma non mi
sembra di aver raccontato con glamour, e mi pare che le conseguenze delle loro
azioni siano abbastanza efficaci per chiunque avesse ancora il mito di quella
realtà lì, che non voglio demonizzare ma neanche esaltare.
Fol - Ci sono registi
contemporanei che senti più vicini?
M.G. - Amo molto il cinema che
lavora sulle immagini, ammiro Lynch, Kaurismaki,
P. T. Anderson. Io non vado spessissimo al cinema, vado più spesso a
teatro. Amo spettacoli come quelli dei Raffaello Sanzio.
Fol - Non senti un tessuto
comune in Italia?
M.G. - Mi capita di sentire dei
nomi che vengono associati al mio lavoro, come quelli di Crialese e Sorrentino.
Sicuramente ci conosciamo, ma non ci frequentiamo. Ho sempre preferito fare un percorso indipendente, perché altrimenti ho paura di spersonalizzarmi.
Sicuramente ci conosciamo, ma non ci frequentiamo. Ho sempre preferito fare un percorso indipendente, perché altrimenti ho paura di spersonalizzarmi.
Poi, Roma è un po’ dispersiva, quindi alla fine mi
ritrovo più spesso a parlare di calcio [ride, nda], anche perché trovo
inutili le chiacchierate sulle problematiche del cinema italiano, mi tolgono
energia.
In Italia stiamo attraversando un momento delicato
per quanto riguarda la dipendenza del cinema dalla televisione, che ormai è
totale. Pensare di fare ancora cinema senza i soldi della tv è da ingenui. Ciò
coinvolge anche un discorso espressivo, omologa un po’ tutto come linguaggio.
In altri paesi non è così. In America, dove sono stato per il sonoro del film,
ho verificato che gli incassi in sala sono ancora importanti. La situazione è
delicata.
Ma non drammatizzo, mi sono comprato la mia macchina
da presa 16 mm ,
ho il mio Dat per il suono… Nel momento in cui non dovessi riuscire a conservare
la mia indipendenza espressiva ritornerò a fare film come facevo all’inizio,
con gli amici, con quello spirito lì… e per campare farò altro. Anche se non
demonizzo la tv, perché se fatta bene può avere un ruolo straordinario.
Se penso alla libertà espressiva che ho avuto in
questo film, l’ho avuta perché alle spalle c’era un libro che aveva venduto un
milione di copie, di conseguenza un potenziale di spettatori importante e anche
una certa tranquillità di tipo economico.
Fol - Oltretutto dopo un film
duro e commercialmente disastroso come Primo amore…
M.G. - Primo amore aveva meno piani di lettura, era molto
celebrale, claustrofobico.
Fol - Un film espressionista,
quasi baconiano.
M.G. – È un film che mi ha fatto
male. L’ho fatto con il solito slancio, ma è un film di cui ho portato le
tracce per anni. Ho fatto tanti tentativi di affrontare nuovi progetti, ma ogni
volta mi mancavano le forze. Era come se fossi stato vampirizzato. Avrei creato
film morti, dopo. Sono stati tre anni e mezzo tormentati, perché la cosa che mi
rende più felice al mondo è lavorare, la convalescenza è stata lunga.
Fol - Per tornare a Gomorra,
ci puoi raccontare cosa è successo su YouTube durante la lavorazione?
M.G. - È avvenuto un episodio
assurdo a proposito della realtà che viene reinventata e che poi diventa più
vera di quella da cui si è partiti. Quando abbiamo girato la scena
dell’omicidio di Gaetano c’erano centinaia di persone che guardavano da sopra
Le Vele e riprendevano con il cellulare. La scena è finita su Youtube, dove
l’agguato di camorra è stato interpretato come reale, e molti ne erano
assolutamente convinti. Io avevo cercato di essere il più possibile realistico
nei dettagli, loro l’hanno ripresa, l’hanno mandata in rete e l’hanno fatta
diventare vera, c’è stata anche un’indagine della polizia, mi hanno interrogato
in commissariato.
Mi è capitato di incontrare boss che sul loro
cellulare mi mostravano quella scena che avevo girato io, dicendomi che adesso,
oltre a farli gli agguati a Scampia, li riprendevano pure. È davvero
pirandelliano.
Fol - Pirandello ai tempi di
YouTube…
M.G. - Di YouTube e della tv
spazzatura non mi affascina l’aspetto sensazionalistico, ma le immagini, la
verità delle facce, che spesso è maggiore di tanto cinema contemporaneo
televisivo, piatto, mortuario.
(Giovanni Petitti, Frameonline 10/05/2008)
Nessun commento:
Posta un commento