sabato 14 giugno 2014

Gomorra. Intervista a Matteo Garrone.



Mentre si conclude con ascolti da record e grandi polemiche la serie tv  tratta da "Gomorra", 12 episodi diretti da Sollima (7), Cupellini (3) e Comencini (2), polemiche nelle quali non entro non avendola vista, rimando alla prima trasposizione del libro di Saviano che, nel 2008, venne diretta da Matteo Garrone. 
Film per il grande schermo che vinse meritatamente il Gran premio della giuria a Cannes.



Il film racconta alcuni aspetti del libro di Roberto Saviano, un'opera lucida e disturbante che ho letto con interesse e con dolore perché  descrive bene come i tentacoli della camorra arrivino a tanti campi del nostro vivere quotidiano e non si limitino certamente alla terra dei fuochi. 



D'altro canto di una "linea della palma", scriveva già nel 1961 Leonardo Sciascia ne "Il giorno della civetta", a proposito della criminalità mafiosa che colonizzava territori lontani dalla sua Sicilia; ormai la sua profezia è pienamente avverata. 
Credo sia utile che libri e film mantengano gli occhi aperti su tali fenomeni, possibilmente senza farlo in maniera didascalica o furba ma usando al meglio i loro rispettivi linguaggi. 
Capacità che certo non è mancata a Matteo Garrone. 
Qui ripropongo una mia intervista al regista romano (classe 1968) uscita su frameonline  poco prima del suo viaggio a Cannes. 
Tra l'altro è interessante vedere come fu lo stesso Garrone a immaginare per primo una trasposizione del libro in dieci puntate televisive, accettando poi la richiesta del produttore Procacci che preferiva un'opera per il cinema. Quello stesso produttore che ora è dietro la serie tv di Sky-Atlantic.



Intervista a Matteo Garrone.
«Gomorra», gangster movie rosselliniano
di Giovanni Petitti

Frame OnLine - Com’è nata l’idea di trasporre Gomorra di Roberto Saviano? È stata una tua scelta o una proposta produttiva?
Matteo Garrone - Entrambe le cose. Domenico Procacci aveva acquistato i diritti del libro ancora prima che venisse pubblicato.
Il libro mi ha colpito soprattutto per la rappresentazione di una realtà che in qualche modo mi riportava a un mondo arcaico, antico, quasi mitologico.
Come Saviano nel libro è riuscito a riscrivere l’immaginario legato alla camorra, io avevo l’ambizione di riscrivere un immaginario che il cinema ha sempre raccontato attraverso una serie di luoghi comuni. Volevo raccontare quel mondo visto dall’interno.
Poi avevo voglia di misurarmi con un film d’azione, anche se non so fino a che punto lo si possa considerare un film di genere. L’idea di lavorare su un gangster movie ce l’avevo sempre avuta e questa mi sembrava l’occasione giusta, anche perché ero piuttosto libero dal punto di vista drammaturgico.

Fol - Ciò che colpisce della tua trasposizione, che giustamente non è illustrativa, è che nel film si trova molto meno dolore e cupezza rispetto alle pagine di Saviano. È un film duro, violento, forte, ma con una sua vitalità e una sua luce…
M.G. - Questo aspetto è sempre difficile poterlo controllare mentre giri un film. Prima, abbiamo ipotizzato una sceneggiatura qui a Roma, lavorando con Saviano, Braucci, Gaudioso, Chiti e Di Gregorio.
Poi, andando lì in Campania, tante cose le ho dovute verificare sul campo e sicuramente uno degli aspetti che mi aveva colpito era proprio questa contraddizione: la vitalità e il senso di morte che incombe ma che quando stai lì quasi non percepisci. Quella realtà lì fa molta più paura dall’esterno, senza conoscerla, piuttosto che nel momento in cui ci vivi dentro.
Anche la vitalità che è emersa ho cercato di non ostacolarla, di non avere nessun pregiudizio, nessun tipo di intento sociologico o di denuncia. Ho cercato di cogliere tutti gli aspetti più importanti, cercando di mettere l’idea figurativa, l’immagine, sempre davanti all’aspetto, all’informazione. Ne è venuto fuori un affresco di cui sono stato consapevole fino a un certo punto, perché come hai visto il film è composto di tante realtà, di tante facce diverse a seconda dei luoghi in cui giravo.
Si potrebbe quasi dire che io abbia visto il film per la prima volta nel momento in cui ho messo insieme tutti questi tasselli.
Ho provato a concentrarmi sull’aspetto umano, su temi che possano essere riconoscibili per chiunque. Poi ho anche scelto di raccontare dei personaggi dal basso, come se gli dèi non apparissero mai. I boss non si vedono quasi mai, si percepiscono. Ho tentato di raccontare attraverso queste vite come esse vengano condizionate da quest’ambiente, da questa realtà, da queste regole, da questo sistema, trovandosi a volte quasi inconsapevolmente all’interno di un ingranaggio.
Quando giravo mi sembrava di girare un film di guerra.
Le tensioni e le preoccupazioni venivano fuori anche dai dialoghi, che avevano dei margini di improvvisazione, dei termini che rimandavano a una realtà bellica, come ad esempio quando uno dei ragazzi ha usato l’espressione: “Partiamo dalla nostra roccaforte”.




Fol - Hai sicuramente dovuto fare delle rinunce rispetto alle tante storie raccontate nel libro…
M.G. - Secondo me una trasposizione ideale di questo libro poteva essere quella tipo Decalogo, dieci puntate per la televisione di un’ora ciascuna, che avrebbero dato il tempo necessario per sviluppare ogni storia. Questo è stato il mio suggerimento a Procacci, ma lui voleva fare un film per il cinema. Io ho detto: “Proviamoci!”, ma non ero affatto sicuro di riuscire a restituire in due ore la potenza dell’affresco che esce dal libro. Dovevano essere sei storie, poi alla fine una l’abbiamo tagliata e ne sono rimaste cinque.

Fol - Una delle scene forse più toccanti e significative è quella della contadina.
M.G. - La contadina mezza folle che coltiva le pesche inconsapevole dei veleni nascosti nel terreno sembra quasi un personaggio shakespeariano: la matta che, però, parlando quasi tra sé dice la verità: “Cosa sono questi buchi? Ci deve essere una talpa!”.

Fol - Qual è il tuo metodo di lavoro?
M.G. - Il mio modo di lavorare è stato simile in tutti i film che ho fatto: sceneggiatura, fase di ripresa, montaggio. Poi rivedo il film con i montatori, riscriviamo tutta una serie di cose che non ci piacciono, ritorno a girare. È un po’ come il lavoro artigianale nella pittura: per arrivare a una tonalità si usano tanti colori diversi, attraverso diversi strati di colore si ottiene la tonalità desiderata.

Fol - Tornando al rapporto con il libro, non pensi che per la camorra il film sia molto meno scomodo del libro di Saviano perché insiste di meno sulla denuncia dei vertici?
M.G. - Io ho fatto un film sull’uomo, il problema della denuncia non me lo sono posto, quello è legato al linguaggio.
Come spettatore mi capita di trovarmi davanti a un percorso opposto, cioè vedo film che dicono che la camorra è cattiva ma sono a tal punto privi di impatto emotivo da rimanere qualcosa di inconsistente.
In questo caso mi sembra di aver raccontato, non attraverso le parole ma attraverso i personaggi, questo ingranaggio, la dimensione animalesca della realtà, ma senza indicare il buono e il cattivo. Anche perché questa è una delle cose che mi ha più colpito, esiste tutta una zona grigia in cui legalità e illegalità si confondono.

Fol - Sei pessimista sulla possibilità di vincere la lotta contro la camorra?
M.G. - C’è una tale sfiducia rispetto alle istituzioni, un’estrema povertà piuttosto che un’ignoranza, tutta una serie di fenomeni bisognerebbe vedere fino a che punto pilotati, tutta una serie di fattori per cui la camorra può apparire come un elemento di sostegno economico.
È come la metafora del contadino che non ce la fa più a pagare i debiti, per cui affitta il suo terreno per farci seppellire i rifiuti tossici, ma muore di cancro e non ne è nemmeno consapevole.


Fol - La malavita organizzata è un cancro e nello stesso tempo una fonte alimentare?
M.G. – Sì, e trova un terreno fertile dove c’è una realtà arcaica, dove vi sono lotte tra soldati, i camorristi sono come samurai che sanno di avere forti possibilità di non arrivare alla vecchiaia, che forse passeranno la loro vita in carcere, ma combattono lo stesso per il potere.
Poi, sarebbe molto interessante indagare il rapporto tra loro e la politica, che nel libro da Saviano viene abbozzato ma quasi mai affrontato.

Fol - La rappresentazione dei personaggi camorristi è spesso diversa rispetto a quella a cui siamo abituati dagli stereotipi.
M.G. - Il look dei camorristi è cambiato, hanno la fisicità del modello, tra la De Filippi e il calciatore.
La malavita è cambiata antropologicamente allo stesso modo di come sono cambiati i calciatori. Se prendi un album delle figurine degli anni Settanta vedi le facce: sono molto più marcate di quelle di oggi. Hanno subito un mutamento, Pasolini lo diceva già nel 1975.

Fol - È come se fossero un po’ plastificati.
M.G. – Sì, non a caso il prologo racconta il film, perché la carneficina al solarium è l’equivalente di ciò che un tempo era la strage dal barbiere.
In sceneggiatura, la scena del solarium non c’era, è venuta fuori riflettendo sulla mutazione del look malavitoso. C’era solo l’idea di una faida interna, amici che si sparano tra loro. Ormai non esistono guerre tra clan ma solo spaccature interne.

Fol - Quando il libro di Saviano ha avuto tutto quel successo hai avuto paura di rimanerne schiacciato?
M.G. - Sì.


Fol - Saviano ha dato qualche suggerimento linguistico, per esempio sul dialetto?
M.G. - Sì, ci teneva molto che venisse fuori il dialetto di Casale, sfumature che nel cinema non si erano mai sentite.
Fol – Conoscendo il romanzo di Saviano, gli abitanti delle zone dove è ambientato il libro come hanno preso il fatto che ci girassi un film?
M.G. - C’è da dire che il cinema apre tantissime porte. Tant’è che anche Saviano racconta di come la malavita prenda il gusto dal cinema; è la criminalità a formarsi su modelli cinematografici, come Scarface di De Palma. Infatti, c’è la scena nella villa di Schiavone, che il boss si era fatta costruire pretendendo che l’architetto la copiasse da quella di Scarface. Credo, che da parte della camorra ci sia una grande attesa per il film, ma più narcisistica che di preoccupazione per i contenuti.
Ho percepito anche ostilità e chiusure da parte di alcuni, non tutti mi hanno aperto le porte. Il mio percorso cinematografico è sicuramente stato seguito in maniera invisibile dalla camorra. Anche a Scampia abbiamo avuto l’appoggio di molti, nonostante vi fosse stata una grande speculazione mediatica su Scampia che aveva infastidito gli abitanti.
Comunque, durante le riprese per evitare di essere scambiati per poliziotti andavamo in giro con un passi. Un giorno è successo un episodio buffo: sul ciak il film si intitolava “Sei storie brevi”, proprio per evitare, per cautela, il titolo del libro; ma uno dei ragazzi del luogo ci ha detto: “Il titolo così non va, il titolo ideale dovrebbe essere ‘Gomorra’, sennò ‘Scission’”. Noi volevamo tenerlo nascosto, e proprio loro hanno suggerito il titolo reale.



Fol - Come hai scelto gli attori? Che percentuale c’è di attori non professionisti?
M.G. - La maggior parte sono attori di teatro, per esempio Totò viene dall’esperienza teatrale di Arrevuoto (Napoli) che ha coinvolto i ragazzi di Scampia portandoli in tournée per tutta Italia. Poi ci sono attori che hanno recitato in carcere, altri provenienti dal Grande Fratello, e poi quelli che hanno un percorso più tradizionale, come Toni Servillo e Gianfelice Imparato. È stato un grande mix di attori, la grande scommessa era riuscire a farli recitare tutti insieme, dimenticando le loro provenienze.

Fol - Come si sono posti gli attori professionisti rispetto agli interpreti meno noti o non professionisti? Immagino che Servillo non abbia avuto atteggiamenti divistici.
M.G. - Servillo è un attore straordinario, è stato molto intelligente e collaborativo, come quando abbiamo girato la scena dell’incontro con il padre di Roberto.
L’attore che interpreta il padre non aveva mai recitato, era un portantino che avevo trovato il giorno prima. Ovviamente, ero preoccupatissimo perché non sapevo come avrebbe reagito, e la scena era importantissima e complessa: accompagnava il figlio nel suo primo viaggio di lavoro. Si doveva anche sentire l’estrazione popolare di Roberto, per far capire come la scelta di abbandonare Franco potesse essere dolorosa per lui.
Siamo partiti con un primo ciack straordinario, questo signore si è ricordato tutte le battute con tutti i tempi, e lì Toni Servillo è stato un grande perché non si è sovrapposto.


Fol - Che tipo di difficoltà hai incontrato durante le riprese?
M.G. - Io giro sempre in sequenza, quindi dalla prima scena all’ultima. Di solito le prime scene sono le più difficili perché gli attori non sono ancora dentro il personaggio, e anche da parte mia ci possono essere indecisioni…
In questo caso qui, per ogni episodio avevamo due settimane a disposizione, quindi un episodio finiva quasi sempre dopo la prima settimana, quando si iniziava a ingranare e si doveva ripartire da capo con un altro. Era molto difficile riuscire a centrare subito la storia, di conseguenza è stato come sempre di grande aiuto tornare a rigirare una seconda e una terza volta. Però, mentre nei film precedenti avevo personaggi che potevo raccontare seguendoli per due mesi, qui avevo a disposizione solo due settimane.

Fol - Rispetto ai tuoi film precedenti, girati con mezzi produttivi minori, con Gomorra hai potuto rivolgerti a un grande pubblico, facendo un film che ha più livelli di lettura. Ne eri consapevole mentre lavoravi?
M.G. - Quando giravo le scene, dietro il monitor avevo sempre una discreta serie di gente del posto, e per me era importante vedere se si riconoscevano, se si emozionavano, se la rappresentazione comunicava loro qualcosa o era semplicemente fasulla, vuota. Volevo che lo spettatore entrasse in quel mondo lì senza filtri, senza sentire che lo sguardo del regista diventasse protagonista.
Lo stesso discorso vale per la musica: nel film non c’è mai musica di commento, ma le musiche sono usate come suono di ambiente, come le voci delle sentinelle. Lo stesso vale per il montaggio: abbiamo cercato di usare il minor numero possibile di tagli, quasi sempre lasciamo che si segua l’azione senza tagli interni, sono quasi tutti piccoli piani sequenza. Ho avuto l’aiuto prezioso di Gianluigi Toccafondo, che mi “riportava all’ordine” quando avevo qualche tentazione di ricercatezza stilistica.

Fol - Spesso stai dietro i personaggi come se le sequenze fossero delle soggettive di un testimone diretto delle azioni.
M.G. - Sì, sembrano le soggettive di uno spettatore ipotetico. Per dare allo spettatore l’idea di vivere lì.

Fol - A quale personaggio del film ti senti più legato?
M.G. - Mi sento legato un po’ a tutti i personaggi, perché in ognuno riconosco qualche tema a cui mi sento vicino, come Pasquale nel rapporto con la propria arte. 




La scoperta di poter insegnare, comunicare. Mi piace la scena in cui, tornando a casa dalla moglie, le racconta dei cinesi “Cin ciun cian” che sanno cucinare, lo chiamano maestro.
Amo molto anche la scena dell’auto che finisce tra le statue di Padre Pio, delle Madonne.


Fol - Non temi di venire rimproverato di avere stemperato il coté politico del libro di Saviano?
M.G. - Io vengo dalla pittura, la forza dei grandi quadri non sta nell’aspetto delle informazioni che ti danno ma in come sono dipinti. Ad esempio, I girasoli di Van Gogh hanno una forza e una violenza anche politica molto maggiore di tutta una serie di quadri del realismo socialista o di pittura di impegno. Ad avere valenza politica non è ciò che si dipinge ma come viene dipinto.
L’arte che mi interessa di più deve lavorare nel creare emozioni che oltrepassino il filtro razionale, anche nel film che ho fatto. Ho cercato la stessa libertà anche in film come Estate romana, andava quasi verso l’astrazione, o per meglio dire verso l’impressionismo. Era un poemetto.




Fol - Che modelli di cinema hai avuto nel girare Gomorra?
M.G. -
Un modello erano i reportage di guerra, oppure i documentari sugli animali.
Poi c’è sicuramente il Rossellini di Paisà. Dopo aver girato la scena della prova di coraggio nella grotta, ho anche scoperto che lì Rossellini aveva ambientato una parte dell’episodio napoletano.




Fol - Sbaglio o c’è anche qualche riferimento a Pasolini?
M.G. - Sì, quando i bagnini mettono i corpi dei due ragazzi nella scavatrice ho pensato ai burattini di Totò e Ninetto che Modugno butta nella discarica in Che cosa sono le nuvole di Pasolini  Anche i due ragazzi sembrano due burattini.
(vedi clip del film di Pasolini: https://www.youtube.com/watch?v=rEI9rPcggOY)

Fol - Non c’è il rischio di spettacolarizzare la camorra?
M.G. - Poteva esserci, ma non mi sembra di aver raccontato con glamour, e mi pare che le conseguenze delle loro azioni siano abbastanza efficaci per chiunque avesse ancora il mito di quella realtà lì, che non voglio demonizzare ma neanche esaltare.

Fol - Ci sono registi contemporanei che senti più vicini?
M.G. - Amo molto il cinema che lavora sulle immagini, ammiro Lynch, Kaurismaki, P. T. Anderson. Io non vado spessissimo al cinema, vado più spesso a teatro. Amo spettacoli come quelli dei Raffaello Sanzio.




Fol - Non senti un tessuto comune in Italia?
M.G. - Mi capita di sentire dei nomi che vengono associati al mio lavoro, come quelli di Crialese e Sorrentino
Sicuramente ci conosciamo, ma non ci frequentiamo. Ho sempre preferito fare un percorso indipendente, perché altrimenti ho paura di spersonalizzarmi.


Poi, Roma è un po’ dispersiva, quindi alla fine mi ritrovo più spesso a parlare di calcio [ride, nda], anche perché trovo inutili le chiacchierate sulle problematiche del cinema italiano, mi tolgono energia.
In Italia stiamo attraversando un momento delicato per quanto riguarda la dipendenza del cinema dalla televisione, che ormai è totale. Pensare di fare ancora cinema senza i soldi della tv è da ingenui. Ciò coinvolge anche un discorso espressivo, omologa un po’ tutto come linguaggio. In altri paesi non è così. In America, dove sono stato per il sonoro del film, ho verificato che gli incassi in sala sono ancora importanti. La situazione è delicata.
Ma non drammatizzo, mi sono comprato la mia macchina da presa 16 mm, ho il mio Dat per il suono… Nel momento in cui non dovessi riuscire a conservare la mia indipendenza espressiva ritornerò a fare film come facevo all’inizio, con gli amici, con quello spirito lì… e per campare farò altro. Anche se non demonizzo la tv, perché se fatta bene può avere un ruolo straordinario.
Se penso alla libertà espressiva che ho avuto in questo film, l’ho avuta perché alle spalle c’era un libro che aveva venduto un milione di copie, di conseguenza un potenziale di spettatori importante e anche una certa tranquillità di tipo economico.

Fol - Oltretutto dopo un film duro e commercialmente disastroso come Primo amore
M.G. - Primo amore aveva meno piani di lettura, era molto celebrale, claustrofobico.

Fol - Un film espressionista, quasi baconiano.
M.G. – È un film che mi ha fatto male. L’ho fatto con il solito slancio, ma è un film di cui ho portato le tracce per anni. Ho fatto tanti tentativi di affrontare nuovi progetti, ma ogni volta mi mancavano le forze. Era come se fossi stato vampirizzato. Avrei creato film morti, dopo. Sono stati tre anni e mezzo tormentati, perché la cosa che mi rende più felice al mondo è lavorare, la convalescenza è stata lunga.


Fol - Per tornare a Gomorra, ci puoi raccontare cosa è successo su YouTube durante la lavorazione?
M.G. - È avvenuto un episodio assurdo a proposito della realtà che viene reinventata e che poi diventa più vera di quella da cui si è partiti. Quando abbiamo girato la scena dell’omicidio di Gaetano c’erano centinaia di persone che guardavano da sopra Le Vele e riprendevano con il cellulare. La scena è finita su Youtube, dove l’agguato di camorra è stato interpretato come reale, e molti ne erano assolutamente convinti. Io avevo cercato di essere il più possibile realistico nei dettagli, loro l’hanno ripresa, l’hanno mandata in rete e l’hanno fatta diventare vera, c’è stata anche un’indagine della polizia, mi hanno interrogato in commissariato.
Mi è capitato di incontrare boss che sul loro cellulare mi mostravano quella scena che avevo girato io, dicendomi che adesso, oltre a farli gli agguati a Scampia, li riprendevano pure. È davvero pirandelliano.

Fol - Pirandello ai tempi di YouTube…
M.G. - Di YouTube e della tv spazzatura non mi affascina l’aspetto sensazionalistico, ma le immagini, la verità delle facce, che spesso è maggiore di tanto cinema contemporaneo televisivo, piatto, mortuario.

(Giovanni Petitti, Frameonline 10/05/2008)

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