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mercoledì 24 febbraio 2016

Fuocoammare. Un film necessario




Tra gli italiani in sala da non perdere il film di Gianfranco Rosi, Fuocoammare, vincitore dell'Orso d'oro al Festival di Berlino.
Direi che è un film necessario. 
Senza commenti in over voice né didascaliche spiegazioni, mostra il tempo  che scorre tra i pini e gli scogli di Lampedusa, la vita quotidiana di un ragazzino, di cui il regista sfrutta benissimo la spontaneità, quella dei pescatori attraverso le canzoni a loro dedicate alla radio locale, i poveri interni dei lampedusani e intanto le voci disperate dai barconi registrate dalla radiomobile della guardia costiera. 
Un medico del locale pronto soccorso  racconta del dovere di aiutare quella gente, del  dolore nel vedere i bimbi morti, dolore cui non ci si abitua. 
Anche quando Rosi segue i soccorsi in mare, lo fa stando lì senza tante parole. Con immagini dure, partecipi, asciutte.
È la nostra tragedia attuale, come per la generazione dei miei genitori la guerra. La viviamo un po' da lontano, almeno per ora, poi ci rimbalza in casa con le schegge dei terrorismi, con i problemi dell'integrazione, con i razzismi e un odore di anni trenta europei che sale e spaventa.



domenica 15 novembre 2015

Intervista a Gaudino sul suo film "Per amor vostro"



Di solito si concludono le interviste chiedendo dei nuovi progetti in corso d'opera, stavolta inizio chiedendoti a che punto è il tuo progetto su Pompei?

Non ne parlerei, non per scaramanzia ma perché vorrei parlare di cose concrete, più concrete possibile, non di intenzioni. Tra la gestazione di Giro di lune e questo film sono passati 19 anni, non voglio far passare di nuovo troppo tempo...

Per amor vostro era un progetto precedente a quello di Pompei?

No. Pompei è prima di Giro di lune,  Per amor vostro è stato ideato e ha vinto un premio per la sceneggiatura nel 2008 ed è stato realizzato nel 2014.



Come è avvenuto il coinvolgimento del cast? Come sei arrivato a Valeria Golino?

Valeria l'ho corteggiata quasi due anni e mezzo fa. Non mi rispose, quindi pensai ad un'altra attrice di cui mi ero e sono tuttora innamorato, ma con l'andar del tempo mi sono reso conto che avevo bisogno di un'attrice un pochino più giovane per poter fare il nido, la covata; era difficile che una donna di sessanta anni si potesse ribellare. Mentre Valeria con i suoi 48 anni era giusta con l'età per poter decidere di cambiare vita.
Quindi ho sentito Valeria Golino un anno e mezzo fa, ha letto la sceneggiatura che la prima volta non aveva letto. Ha detto "ci sto, non so cosa succederà, ma nel progetto ci sto". Con lei poi abbiamo  costruito tutto via via.



Hai raccontato che la sceneggiatura di Per amor vostro era di ferro, anche se si ha l'impressione che il film abbia una musicalità di ritmo che a volte fa pensare a spazi di improvvisazione, quasi da free jazz.

Ci sono solo tre scene che abbiamo spostato in blocco interno, ma anche le altre scene spostate erano già costruite in quella maniera lì. La composizione della musica è stato un lavoro di molti mesi, quasi un anno con i musicisti, per cercare il tema, per cercare questa musicalità, per cercare la possibilità di montare musicalmente la storia. Non potevo girare le scene senza avere la musica, anche il semplice tema.
Per cui la costruzione del film può sembrare libero, ma è soltanto una concentrazione di ritmo interno alla storia. Le scene erano scritte in quella maniera.
Anche passare dal dettaglio al totale era già scritto in sceneggiatura. Noi abbiamo girato come era scritto. Siamo stati molto diligenti. Alle volte poi io chiudo la sceneggiatura e giro quello che penso, io sono il notaio di me stesso. Ma se succede qualche imprevisto: l'attore non è in grado di farlo, le comparse non arrivano, nell'incidente si modella la storia all'interno delle possibilità che avevo, ma questi momenti hanno sempre tenuto fede alla storia. Ogni giorno c'erano tre scene da girare e queste scene erano già scritte, mandate a memoria da tutti.

Quindi la musica è già presente prima ancora del montaggio?

Sì la musica era stata già composta con strumenti campionati e l'abbiamo usata durante il montaggio. Poi alla fine del montaggio una volta deciso il minutaggio esatto, (togliere 5 secondi in una musica è complesso), si è aspettato il montaggio definitivo, abbiamo fatto il timing esatto e abbiamo inserito le musiche.

Questo dà un grande ritmo al film.

La cosa importante è che gli Epsilon Indi sono stati molto intelligenti. È un gruppo che si allarga e si stringe nelle varie occasioni, noi lavoriamo con loro da molti anni. Hanno avuto l'intelligenza di seguire o anche di abbandonarsi alle mie paturnie per raggiungere quella qualità. Sono riusciti, pur essendo romani, a scrivere ed eseguire in napoletano, ad immergersi in una dimensione che non gli apparteneva. Si sono fidati. Gli sono grato. Hanno capito che bisognava spiritualizzare queste emozioni. Anche nella musica rielaborata del Quartetto Cetra o quella su testo di Händel, la combinazione sonoro-scena è molto forte e vincolante.

Ho notato che il suono è quasi onnipresente, persino nella scena d'amore sul ciglio del territorio vulcanico, (scena che mi ha ricordato il finale di Notti di Cabiria),  c'è un suono inquietante, un rumore quasi infernale.

Lì c'è stato un grande lavoro di montaggio del suono, abbiamo usato 56 piste per fare quel suono. Una volta montato il film aveva una sua immagine anche sonora. Finito il montaggio della scena sono iniziate ben otto settimane di suono. Abbiamo dato corpo a questa qualità, per renderlo più essenziale ed inerente alla storia.
Il gruppo del suono era di cinque persone.
In quella scena d'amore di cui parlavi ho cercato un suono che potesse evocare qualcosa pur non essendo naturalistico. Il lavoro e il costo del film è anche potersi permettere di stare al mixer per tot settimane.



A me sembra che attraverso il tuo curriculum in qualche modo hai unito due elementi che rendono più prezioso questo tipo di film, ovvero l'elemento artigianale del cinema d'avanguardia che si fa quasi da soli, penso alle prime avanguardie (Man Ray, etc) e dall'altro lato  il lavoro di documentazione, di cinema del reale girato in mezzo mondo che forse toglie il rischio di scientificità un po' fredda che hanno certi film d'avanguardia che sembrano fatti in una dimensione un po' chiusa in se stessa.

Non sempre è facile tenere insieme questi due mondi, non sempre lo si riesce a far capire bene anche ai propri collaboratori. A volte la cultura va avanti con la concatenazione e con le formule. La fatica è cercare di mantenere il rigore, di mantenere un livello di linguaggio alto. Volevo mantenere in Per amor vostro quelle aperture che non erano solo un fatto estetico, ma di dinamica della storia.
In altri paesi sono più avanti di noi perché sperimentano di più; da noi la pigrizia dei produttori, e non solo la loro, frena il lavoro sul linguaggio. Lars Von Trier  o Lynch sono i detentori della sperimentazione.


Oltre alle citazioni felliniane ho trovato infatti anche qualche accento lynchiano.

Sono citazioni inconsapevoli, poi è evidente che se tu spettatore hai scoperto il cinema con Fellini, vedi degli elementi felliniani nei film che vedi, o se lo hai scoperto con Dziga Vertov o con Kazan hai quello come schema culturale. Non mi sono  detto: "faccio citazioni di Fellini o di Visconti", ho preso da queste memorie quello che mi interessava, mi interessava di raccontare una sensazione. E loro mi hanno dato la libertà, la possibilità di poter raccontare così una storia. Essere sicuro di potermi agganciare, di essere libero. Non è un film di citazioni, ho solo citato Eduardo De Filippo perché mi era necessario, così era nata l'dea sull'ignavia e sul mercato nero ancora presente a Napoli negli anni cinquanta e sessanta.
Rispetto alle citazioni viste nel film da parte degli spettatori mi dispiacciono solo se sono argomentate male, altrimenti non c'è niente di male.
Il grande lavoro è stato quello di creare dei nessi tra i vari blocchi narrativi, nessi che non sono lineari. Gli sceneggiatori mi spingevano a spostare alcuni momenti perché secondo loro sarei arrivato più velocemente, ma io dicevo che non volevo arrivarci velocemente ma progressivamente, con una dinamica imprevedibile. Non volevo fare Un posto al sole. Quando giravamo a Napoli la gente ci chiedeva se eravamo di Un posto al sole o de La squadra. Tutti avevano quei riferimenti, questo crea un meccanismo perverso.
Un regista indipendente la difficoltà che ha è quella di tener sempre ferma la barra e far capire che non sprechi denaro e che non sei gestibile. Non volevamo essere originali in maniera fine a se stessa, ma volevamo raccontare una dimensione mentale, un meccanismo, e l'altro è fare affiorare la memoria degli spettatori. Le citazioni come diceva Borges sono solo dei casellari per incasellarci ma non è il modo giusto per avvicinarsi alla storia.
La storia parte da questa donna che fa i gobbi per le fiction televisive. Li ho visti in uso quando come scenografo lavoravo in tv. Li usava anche Chiambretti, che, per le sue stupidaggini così calcolate e col ritmo di lavoro così disumano, aveva bisogno di quei cartelli.
Così ho provato a mettere in scena tutto questo, provare a raccontare il rovescio, con la finta soggettiva.
Abbiamo girato tutto in sequenza, in piano sequenza e con le scene concatenate, non c'era la possibilità di agganciarsi a nulla e gli attori lo sapevano che dovevano rimanere sempre in tensione. È stato uno sforzo per tutti. È stato un terno che abbiamo vinto.
Seguivo l'attore e non la macchina.
A volte chi lavora nel cinema ha la tendenza di seguire delle strade precostituite, c'è una routine che invece io scardinavo, dopo tre quattro giorni di lotte per farmi capire, si sono abbandonati completamente  al mio modo di costruire la storia.



Come costruisci un soggetto e una sceneggiatura?

La prima scena che ho scritto è la scena sul terrazzo, tra la madre e la figlia, che inizialmente era molto più lunga. Poi ho scritto tutte le scene delle liti in famiglia. Successivamente le scene della soap opera che erano molte di più e molto più intrecciate.
La costruzione della sceneggiatura si è evoluta, sentivo la mancanza della sorella, del fratello e di volta in volta discutevamo di cosa ci fosse bisogno  per la storia. e di volta in volta abbiamo costruito delle sotto storie, dei personaggi che ruotavano intorno ad Anna. Ad esempio inizialmente le figure della truccatrice e del direttore di scena erano più sviluppate. Lei si confidava su come ingannare i figli per poter fuggire con l'amante. C'erano più livelli di narrazione
Poi il lavoro più grande è stato con Isa e con Lina Sarti, che è mia suocera. Con lei avevo scritto Pompei. È una signora di 82 anni.  È laureata in lettere antiche, ha avuto la curiosità di leggere le mie storie. Abbiamo sperimentato su Pompei. Lei è un ottima lettrice, è  colta, conosce e sa tradurre bene dal latino ed è anche una spettatrice di Un posto al sole. E io avevo bisogno di un avvocato della storia. Poi per un po' si è assentata, quindi lavoravamo io e Isa a Roma. Poi via mail o via skype comunicavamo con lei che è a Rovigo.



 Immagino che sia molto difficile per un artista uomo descrivere la storia di una donna, vedere attraverso uno sguardo che non gli appartiene. Come mai questa scelta?

Forse inconsapevolmente mi capita di comunicare con la sfera femminile molto più spesso che con quella maschile e poi c'è il fatto che a me piace, per dirla scherzosamente, essere un uomo e non un caporale.
Va bene che il maschio si occupi del suo mondo e faccia il maschio ma mi sorprendono e mi piacciono di più quei film che come Veronika Voss di Fassbinder riescono a regalarci una visione insospettata che può essere colta diversamente.
C'è un rischio più alto. Certo io ho avuto l'aiuto di due sceneggiatrici donne, ma posso dire che se c'era qualcosa che come maschio non mi piaceva non l'ho accettata.
Credo che sia una deficienza che vada colmata; è strano pensare che a degli attori uomini il raccontare una storia di donna li faccia sentire portatori d'acqua e non portatori di intelligenza e di umanità. Verificare questo da parte di grossi attori del nostro cinema è un po' triste, pensavo che nel 2015 la bravura fosse frutto anche della loro intelligenza, invece hanno dimostrato la loro miseria.
Non fare il ruolo di Michele perché non è il protagonista e perché ha otto scene, non mi sembra una scelta intelligente, è un film corale non posso cambiare più di tanto, ho anche provato a spostare qualcosa in sceneggiatura, ma se è un film corale tale doveva rimanere. Evidentemente alcuni preferiscono l'apparire all'essere.
Mentre sono felice di aver incontrato una attrice come Valeria che pur essendo una diva, vuole essere e non apparire.
[...]
Non voglio fare sociologia o antropologia però credo che avere l'occasione di raccontare diversamente può farci abituare a pensare diversamente le cose e su questioni pensate diversamente si possono sedimentare altri pensieri e nuovi modi di vedere il mondo.



Nel tuo film c'è una dimensione di stratificazione che non è solo linguistica, ma c'è anche nei vari livelli della città, la Napoli di sopra, la Napoli sotterranea delle catacombe o la Cripta di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco. Tu dici non sono un antropologo, ma hai una curiosità antropologica.

Io non sono bravo a teorizzare, sono bravo ad individuare le contraddizioni, i poli estremi che possono essere sintomatici di qualcosa. L'antropologo sa decodificare, un film può mettere accanto due scene e poi è lo spettatore che crea i nessi.
La bellezza di Napoli, e l'ho usata come scenografia, è che è essa stessa una contraddizione vivente.
Ad esempio il rito delle anime di quella cripta è stato vietato da più di quarant'anni, ma ancora vedi dei lumini e dei messaggi. E l'idea che ci si affidi ai resti di uno sconosciuto, mai identificato è un segno di speranza e di empatia. A me come essere umano dà fiducia che ci possa essere ancora empatia, non conoscersi e sentirsi uniti tra gli ultimi. Ma dall'altro capisci che non è un sistema, sono piccoli momenti isolati di fantasia, di "follia", di evasione che tranquillizza ma che se fosse più diffusa questa empatia non ci sarebbero queste grandi contraddizioni.
L'aspetto negativo di Napoli è che c'è il gusto a fare il furbo, mi auguro che questo gusto si perda, risolve il problema della contingenza ma che non fa evolvere la situazione, gli altri si sentono presi in giro.
La truffa del mattone nei mercati di Napoli è famosissima, Nanni Loy ci ha fatto un film.



Quali sono state le collaborazioni che ti hanno dato maggiori soddisfazioni?

Un momento veramente importante è stato l'insegnamento che mi ha offerto la collaborazione con Gianni Amelio nei due film che ho potuto fare con lui (Il ladro di bambini e Lamerica, un anno dopo l'altro). Gianni è sempre attento all'ambiente, elabora la sua storia sulle caratteristiche dell'ambiente, sulla suggestione, sulla qualità del colore che mette in scena. È uno che racconta anche con l'ambiente, con la messa in scena. Io sono stato felice di essere stato scelto da lui.
Ho dei momenti felici con i miei musicisti, con gli Epsilon Indi.
Poi c'è stato un bell'incontro con Vittorio De Seta che stava preparando il film Lettere dal Sahara e che aiutavo a cercare risorse finanziarie per girarlo. Mi aveva conosciuto per Giro di lune e aveva capito che avevo uno spirito indipendente e che non delegavo ad altri. Non è che sposasse la mia linea poetica però ha riconosciuto la mia intelligenza e questo mi ha fatto piacere.
Ho anche conosciuto autori che lavorano in maniera diversa dalla mia, facendo un cinema più di parole che di immagini. Poi ho fatto degli spettacoli teatrali da Beckett (nei primi anni ottanta) e da autori di avanguardia contemporanea trovando una grande complicità con una mia amica regista.

Sul set de Il ladro di bambini hai anche girato un documentario su Amelio, una sorta di backstage, Ioannis Amelii, Anima Vagula, Blandula.

Quello potevo farlo perché c'era una tale complicità tra me e il maestro che acconsentiva che sul set ci fosse una telecamera accesa perché sapeva che mi serviva per essere "il suo occhio". Spesso rivedeva i filmati e faceva le sue scelte per le scenografie. Per cui accettava che vi fosse sul set la mia macchina da presa, cosa che su un set è molto difficile che avvenga. Se hai visto il film avrai notato che spesso io mettevo la macchina e poi alla fine coincideva con il suo punto macchina, e questo è coinciso in maniera sorprendente. Poi in effetti il maestro mi ha sempre detto: "non è importante dove metti la macchina da presa, puoi far fare questa scelta alla sarta, non sta lì il problema della regia". Io ho imparato tante cose del lavoro. Lui stava facendo due film che credo rimangano nella storia del cinema italiano: Il ladro di bambini e Lamerica.

Il documentario si conclude con una scena in cui tu fai sfilare tutta la troupe nella casa del carabiniere a Roma e quel finale mi ha molto emozionato perché si vede uscire di scena anche mio cugino Ubaldo Panunzi, attrezzista e trovarobe su quel set, che purtroppo è uscito troppo presto di scena anche dalla vita.


sabato 17 ottobre 2015

Gaudino presenta "Per amor vostro" a Pesaro. Il rito collettivo della sala.


Pesaro. Mercoledì 14 ottobre il regista Giuseppe M. Gaudino ha presentato il film "Per amor vostro", vincitore della Coppa Volpi a Venezia per la migliore attrice protagonista: Valeria Golino.
La sala A del cinema Solaris era gremita, qualche posto libero solo in prima fila. 
In epoca di parcellizzazione della visione e di solitudine della fruizione è un bel segno di resistenza del rito collettivo della sala,  del piacere della discussione e dell'incontro con l'autore del film.



Dopo la proiezione Gaudino ha infatti dialogato a lungo con gli spettatori, rispondendo alle domande e raccontando la genesi del film, il tentativo di rappresentare una storia e il sentimento di una donna, i suoi lati "oscuri", la sua ignavia (che è anche rappresentativa del nostro tempo), e il suo tentativo di riscatto.
Nel film ci sono molti piani di lettura (con numerose metafore e un cinema di poesia che alterna realismo -il presente è in bianco e nero, sui toni del grigio - con parti più "folli" e libere: i flashback e le parti oniriche a colori o animate digitalmente).
Una pellicola con molti strati, come i livelli della città dove si svolge la vicenda: Napoli, con i suoi splendori e le sue brutture, i suoi vicoli, i suoi sotterranei e le sue catacombe. Con i vivi e i morti che sembrano scambiarsi i ruoli.
Un film che chiede allo spettatore l'impegno dell' interpretazione, ma regala il gusto di una densità visiva e la qualità alta di un cast corale,  condotto magistralmente dal ruolo di Anna, la Golino che ha meritatamente rivinto la Coppa Volpi a Venezia, dopo quella  per "Storia d'amore" di Citto Maselli nel 1986.


Foto 1: Gaudino, Giannini, Golino, Gallo alla Mostra di Venezia; foto 2: un fotogramma del film; foto 3: Valeria Golino premiata con la Coppa Volpi.

lunedì 10 agosto 2015

"Ragazzi, partite da Dostoevskij". I consigli di lettura del Presidente della Repubblica






Ai consigli di lettura per l'estate che abbiamo dato o chiesto in giro, aggiungo volentieri quelli del primo cittadino, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Li pubblica il Corriere della sera di oggi, 10 agosto 2015, in un articolo di Marzio Breda
Tra i suoi consigli di lettura, ce n'è uno in particolare  che rilancio molto volentieri, è quello  rivolto agli adolescenti: partite da Dostoevskij!


Del grande romanziere russo avete a disposizione molti grandi romanzi e, per chi fosse spaventato dai tomi troppo lunghi, degli splendidi racconti, uno tra tutti Le notti bianche.
Già che ci siete potreste anche vedere il film che Visconte ne trasse.


Oppure potete lasciarvi condurre dalla lettura ad alta voce di Delitto e castigo, dal sito di Radio tre Rai.




domenica 11 gennaio 2015

Intervista a Francesco Rosi. Cadaveri eccellenti

Per ricordare il regista Francesco Rosi che ci ha lasciato a 92 anni, 
riporto qui una mia  intervista,  che registrai l'11 luglio del 1994
nella sua casa romana di Via Gregoriana. Lo avevo conosciuto all'Accademia di Francia che nel novembre 1993 gli aveva dedicato una retrospettiva nella sala Renoir, all'interno della bellissima Villa Medici in cui ha sede a Roma.
La conversazione è incentrata soprattutto sul suo film Cadaveri eccellenti (1976), tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia Il contesto (1971) . Tale intervista andò a far parte della mia tesi di laurea sullo scrittore siciliano e venne pubblicata alcuni anni fa sulla rivista Frameonline.
Ai lettori più giovani consiglio, oltre alla visione del film in questione, anche di recuperare altri capolavori di Rosi. Iniziando da questa filmografia essenziale: Salvatore Giuliano (1962), Le mani sulla città (1963), Uomini contro (1970), Il caso Mattei (1972), Cristo si è fermato a Eboli (1979).
Per una bibliografia indicherei almeno: Francesco Rosi, Io lo chiamo cinematografo. Conversazione con Giuseppe Tornatore, Mondadori, 2012; Michel Ciment, Dossier Rosi, Il Castoro, 2009; Cadaveri eccellenti, sceneggiatura desunta da David Bruni, saggio introduttivo di Lino Micciché, Maimone editore, 1992



 Intervista a Francesco Rosi 




Quali sono stati i motivi ispiratori per la trasposizione cinematografica de Il contesto?

F.Rosi: Il contesto di Sciascia mi ha consentito di poter riprendere le tematiche che io avevo affrontato e sviluppato in alcuni dei miei film precedenti; film che in parte erano partiti da argomenti simili a quelli dai quali muoveva Sciascia per il suo libro. Alludo particolarmente a Salvatore Giuliano, a Le mani sulla città e a Lucky Luciano, che sono tutti film nei quali ho affrontato il discorso del potere, dei vari poteri, dei poteri corrotti delle istituzioni dello stato, dei poteri corrotti del mondo economico e dei poteri criminali. La collusione tra questi poteri, naturalmente dominata dalla mafia che se ne alimentava, collisa con il potere politico e con il potere dei partiti, aveva generato quell'Italia che poi è esplosa attraverso Tangentopoli ma che era già ben declinabile allora. Quell'Italia alla quale il libro Il contesto e il film Cadaveri eccellenti, praticamente facevano il funerale.




Sciascia intervenne mai durante la lavorazione del film?

Rosi: No, no... Io chiesi a Sciascia e gli dissi le ragioni per cui volevo filmare il suo libro. Eravamo molto amici Sciascia ed io, gli spiegai, per esempio, che mentre lui nel libro non parlava precisamente dell'Italia; io invece dovevo affrontare il problema dell'immagine e quindi dovevo riconoscerla l'Italia. Avevo preso questa decisione che naturalmente mi portava a rendere la materia molto meno divertente o divertita, come Sciascia dice: "ho cominciato a scrivere questo libro divertendomi, poi mano a mano che andavo avanti non mi sono divertito più...", e capisco il motivo. 
Io invece ho dovuto scegliere di riconoscere l'Italia perché le immagini vivono soprattutto di realtà e non di metafora. La metafora è un genere nel quale la letteratura ha una possibilità di espressione molto più libera di quanto non possa avere il cinema, il quale si riconduce, per una certa fisicità e per una certa riconoscibilità, sempre alla realtà. Quindi io non potevo parlare di poteri corrotti, senza individuarli. Non potevo parlare di un supposto colpo di stato senza dire dove avvenisse, perché alla fine si sarebbe potuto pensare ad un colpo di stato di un paese da operetta, cosa che io non avevo assolutamente intenzione di fare. Non potevo parlare di partiti politici senza riconoscere in questi partiti alcune formazioni politiche italiane. Quindi presi questa decisione, Sciascia fu d'accordo, disse: "fai tu, il film è dell'autore del film, mentre il libro è dell'autore del libro". Poi ha visto il film terminato e non ha mai, non solo per scelta mia ma anche per scelta sua, fatto osservazioni alla sceneggiatura durante il corso della lavorazione.


Francesco Rosi e Leonardo Sciascia

Lei ha reinterpretato alcuni aspetti dell'ambientazione rendendola più pittorica rispetto a quella un po' scarna del romanzo. Penso al barocco dei funerali...

 Rosi: Io avevo bisogno di creare attraverso le immagini una certa dimensione metafisica, pur riconoscendo nel film la realtà di un paese. Per rendere la realtà del film più interpretata non riprodotta come una cronaca, avevo bisogno di creare una dimensione più vasta e indefinita. E allora attraverso la scelta della luce e dei luoghi ho cercato di ricreare l'atmosfera metafisica del romanzo.
Infatti quei luoghi di Napoli, per esempio: gli scaloni del palazzo reale dilatati dall'uso di un obiettivo opportuno, o anche la piazza dove si svolgono i funerali del procuratore; o l'archivio di stato di Palermo con le sue enormi dimensioni, mi hanno aiutato molto a mantenere la riconoscibilità del paese attraverso il quale mi muovevo. Però hanno aiutato il pubblico cinematografico a capire il processo di interpretazione e di superamento di una certa realtà che io conducevo.




Questa locandina è opera di Enrico Baj.

Lei ha dato un andamento da giallo classico alla narrazione, mentre Sciascia aveva parodiato il genere. Ciò è avvenuto soprattutto per la presenza di Lino Ventura che impersona un Rogas meno intellettuale?

Rosi:Io avevo necessità che il pubblico riconoscesse nel personaggio dell'investigatore un commissario di pubblica sicurezza e non tanto un intellettuale. Ventura si trascinava dietro l'immagine del commissario che aveva già svolto nel cinema francese, e ciò mi aiutava nei confronti degli spettatori che riconoscevano subito il poliziotto.
Ma allo stesso tempo siccome Sciascia al suo personaggio di investigatore attribuiva delle capacità e una appartenenza ad un mondo intellettuale,  io certamente ho considerato anche quell'aspetto.



Sono riferimenti al mondo intellettuale di Rogas, il tango e la festa con le scenografie di Guttuso e Schifano?

Rosi: Per esprimere l'atmosfera borgesiana del romanzo ho pensato al tango di Astor Piazzolla; mentre le tele di Guttuso e Schifano e le statue di Ceroli si prestavano efficacemente a riprodurre la scena di una casa alto borghese.




Sciascia nel saggio La Sicilia nel cinema critica la scelta di Visconti di utilizzare il dialetto siciliano nella Terra trema. Che pensa della critica sciasciana?

Rosi: Visconti ha usato come riferimento Verga ma poi ha creato un film sulla situazione di un paese siciliano facendo interpretare i personaggi da persone che non avevano mai fatto il cinema, assieme alle quali riscriveva i dialoghi nel loro dialetto perché poi potessero esprimersi a loro agio. Non sono quindi d'accordo con le critiche di Sciascia, anche se ho sempre riconosciuto che il non essersi preoccupati di rendere comprensibili i dialoghi in siciliano stretto era un limite.

Le parlò mai delle trasposizioni effettuate dai suoi romanzi e delle sue esperienze di sceneggiatore?

Rosi: Francamente no, non ne abbiamo parlato; io ho sempre conosciuto il suo grande interesse e la sua passione per il cinema, lui ha scritto di tanti film, si è occupato di critica. Non credo tuttavia che Sciascia avesse un reale interesse a fare lo sceneggiatore anche se il film Bronte, sceneggiato con Vancini, è un ottimo lavoro.

Si mostrò deluso dalle altre trasposizioni?

Rosi: Non so. Io le posso parlare del fatto che apprezzò e amò molto Cadaveri eccellenti: ne ha anche scritto affermando che non rinnegava neanche una virgola e che gli andava benissimo il fatto che io avessi voluto riconoscere l'Italia. Si disse d'accordo anche sulle cose che io avevo interpretato andando al di là di quello che aveva scritto. Per esempio tutta la sequenza iniziale, del procuratore che va a parlare nella cripta affrontando un dialogo muto con le mummie, l'ho inventata io, raccogliendo spunti da ciò che avveniva nella realtà siciliana. Perché il procuratore Scaglione, quello che fu ucciso, andava ogni mattina a rendere omaggio alla memoria della moglie.
Ho pensato che quel dialogo muto potesse significare chiaramente, anche nei confronti del pubblico meno avvertito, che il potere si rigenera sui cadaveri.

Le scene del libro di più facile trasposizione sono rimaste invariate: penso ad esempio alla scena dell'incontro tra Rogas e il vagabondo sotto il monumento...

Rosi: Laddove c'erano dei dialoghi così precisi da potersi riprodurre senza variazioni, io l'ho fatto. Perché così ho potuto rispettare lo spirito del libro nella maniera più profonda e più ampia. Naturalmente si trattava di scegliere i luoghi giusti, gli attori giusti. Per esempio, quella dell'incontro col vagabondo, è la piazza ci un paese che si chiama Siculiana. Quel monumentino che è al centro della piazza aveva alla base un giardinetto che io ho trasformato coprendolo di ciottoli per poter rendere la piazza tutta riconducibile ad una unità scenografica. Quel giardinetto finiva col darmi fastidio perché quella piazza è abbacinata dal sole che si riflette sulle pietre e sulle facciate delle case.




Un'altra scena cardine del libro e del film è l'incontro tra Rogas e Riches: anche lì ha cercato di rispettare il dialogo sciasciano?

Rosi: Sì, il dialogo è pressoché identico a quello del libro.

In quella scena i movimenti di macchina sono ridotti al minimo...

Rosi: Muovendo la camera un regista cerca di far capire meglio i movimenti interiori dei personaggi. I movimenti di camera non devono mai essere gratuiti o formali: debbono praticamente seguire prima di tutto le necessità della scansione cinematografica.




Nel suo film lei ha rinunciato ad un punto di vista super partes che corrispondesse al narratore onnisciente de Il contesto?

Rosi: Nei miei film cerco sempre di privilegiare un punto di vista obiettivo ma naturalmente il punto di vista dei personaggi deve essere chiaro, anche se in questi film che sono condotti con una struttura ad inchiesta, è sempre presente il punto di vista di chi l'inchiesta sta conducendo.
Questo punto di vista si deve anche perdere nel punto di vista generale che è quello del contesto e quello della realtà oggettiva che ci circonda, per esempio in Salvatore Giuliano è chiaro che il punto di vista è quello della macchina da presa che sta portando avanti l'inchiesta. Ho cercato nei film-inchiesta di dare da una parte un quadro della realtà che si conosce e dall'altra dare elementi per le ipotesi sulla realtà non conosciuta.

Nel romanzo c'è una visione più pessimistica nel finale, mentre nel film c'è una reazione della base comunista...

Rosi: Mi serviva per rendere chiaro quello che era alla base del libro di Sciascia e del mio film, ovvero il concetto che l'opposizione doveva fare l'opposizione e il governo doveva governare, mentre invece c'erano elementi di compromesso ai vertici del potere. La frase "la verità non è sempre rivoluzionaria", sta ad esprimere il tentativo ai vertici del potere di mantenere l'egemonia senza far conoscere la verità alle masse per evitare una degenerazione destabilizzante l'ordine costituito.

Cadaveri eccellenti è uno dei film con più piani ravvicinati della storia del cinema. Con questo ha voluto dare un'impressione di oppressione del "contesto" sull'individuo?

Rosi: In verità avendo adoperato degli obiettivi grandangolari per dilatare le dimensioni fisiche dei luoghi ho trovato che l'avvicinamento ai personaggi mi compensasse dall'allontanamento creato dal grandangolare. Per cui è venuto fuori un certo tipo di discorso stilistico che mi sembra risolto.

Quindi quell'atmosfera kafkiana è scaturita più da una esigenza formale e di equilibrio stilistico?

Rosi: Direi di equilibrio stilistico, perché l'arte dell'immagine si manifesta soprattutto attraverso l'equilibrio delle forme.

Lei usa spesso immagini fisse e dettagli di fotografie: ciò la accomuna a Sciascia che era un grande amante della fotografia. Vuole creare con questo espediente uno spleen?

Rosi: La fotografia fissa ha un potere evocativo che a volte è superiore a quello delle immagini, perché la fotografia fissa suggerisce mentre l'immagine in movimento fa vedere, ciò non toglie che l'immagine in movimento possa suggerire. La forza di una fotografia non è tanto la sua bellezza quanto la capacità di far capire tutto il mondo che c'è dietro quell'immagine. Questo è ciò che rende la fotografia uno dei modi più profondi di rappresentare la realtà.

Che ne pensa delle polemiche su Sciascia di Arlacchi e Vassalli?

Rosi: Non sono d'accordo. L'opera di Sciascia è stata la prima ad affrontare apertamente il problema mafia. Il suo coraggio non può essere annullato per un articolo inopportuno che Sciascia scrisse per quel gusto del paradosso che spingeva fino alle estreme conseguenze. Sciascia non è fraintendibile, è una grande coscienza critica di tutto quello che è avvenuto in questo paese.

Lei ha girato con Visconti tre film: La terra trema, Bellissima e Senso. In che misura ne è stato influenzato nei suoi film più "letterari"?

Rosi: Io non credo che un aiuto-regista imiti, pur essendo stato aiuto di Visconti, un certo mio cinema è più vicino alla lezione di Rossellini. Che io abbia espresso in Carmen o in Cadaveri eccellenti in maniera più evidente una certa raffinatezza dell'immagine non significa che non l'abbia fatto nei film precedenti. Perché ne Le mani sulla città o in Salvatore Giuliano c'è la stessa scelta dell'immagine, solo che i soggetti  si prestano meno ad una lettura attenta a livello estetico.




Lei ha detto che in Cadaveri eccellenti ha voluto togliere colore per evitarne la trappola della piattezza realistica.

Rosi: Mentre Di Venanzo si esprimeva con uno splendido bianco e nero che ha il potere di trasferire la realtà con P. De Santis ho cercato di evitare che il colore ci trascinasse verso il realistico e per far ciò bisogna intervenire, o mettendo certi colori davanti alla macchina da presa, oppure bisogna intervenire sulla luce. De Santis ha dato ottimi esempi di come si possa ricondurre il colore a un certo tipo di trasferimento della realtà che si ha in mente di dare.

C'è stata una corrispondenza epistolare tra lei e Sciascia?

Rosi: No, non ci siamo mai scambiati lettere.

Intervista a cura di Giovanni Petitti





martedì 30 dicembre 2014

Gian Maria Volonté. Altre indicazioni bibliografiche



        Gian Maria Volonté faccia a faccia con Marcello Mastroianni in Todo Modo di Elio Petri. Foto tratta da eliopetri.net

Vorrei tornare a parlare di Gian Maria Volonté, per aggiungere qualche riferimento bibliografico, dedicato a chi volesse conoscere meglio questo attore che ha influenzato anche molti interpreti di oggi, non solo in Italia. 
Non è un caso che a Roma gli sia stata intitolata una scuola di cinema.
Oltre ai già citati libri di Valeria Mannelli e di Deriu, oltre al libro + dvd di de la Fuente, vorrei ricordare qualche altro titolo, che risulta ancora reperibile.
Partirei da La valigia dell'attore, curato da Giovanna Gravina (figlia di Volonté e di Carla Gravina) e da Fabio Canu, Taphros editrice 2010. 
In questo volume si raccolgono i resoconti dei primi sei anni del festival dedicato a Volonté che si tiene alla Maddalena. Terra e mare sardo che l'attore ha amato e navigato e luogo dove è stato sepolto. Nel volume vi sono materiali fotografici, locandine e testimonianze di quegli incontri di cineasti e attori che ne hanno mantenuto viva la memoria.
Un altro volume (con annesso dvd documentario) è quello curato da Montini e Spila per la Bur nel 2005, Un attore contro. Gian Maria Volonté. I film e le testimonianze.
Non ho ancora letto, ma ne segnalo la recente uscita per l'editore Becco Giallo, la biografia a fumetti: Gian Maria Volonté. Gli autori sono Gianluigi Pucciarelli, Paolo Castaldi e Giuseppe Morici. La casa editrice si è ritagliata il meritorio ruolo di diffondere la memoria di personaggi e di eventi della storia italiana attraverso il mezzo del fumetto. Tra gli altri volumi ricordo quello dedicato alla strage di Bologna o quello dedicato ad Adriano Olivetti. 
Segnalo anche il sito gianmariavolonte.it
e un video, che ho scoperto casualmente su youtube, dove il critico Fabio Ferzetti e l'attore Giulio Scarpati leggono alcuni stralci della mia intervista a Gian Maria Volonté davanti al pubblico dell'auditorium di Roma.
Poi ovviamente vi sono i suoi film.
Buone letture e buone visioni.






sabato 6 dicembre 2014

Ricordo di Gian Maria Volonté


 Gian Maria Volonté moriva vent'anni fa a Florina,  in Grecia .
Stava girando "Lo sguardo di Ulisse" di Angheloupos, insieme ad Harvey Keitel. Il film lo vedeva interpretare il ruolo del direttore della Cineteca di Sarajevo.  Film, che vinse la Palma d'oro a Cannes. Era ambientato durante la guerra jugoslava.
Purtroppo l'infarto gli impedì di concludere il film e ce lo strappò a soli sessantuno anni.
In quegli ultimi anni il cinema italiano non lo aveva sfruttato in maniera adeguata al suo enorme potenziale.  L'ultima pellicola italiana risaliva al 1991.  " Una storia semplice" di Emidio Greco, dove l'attore aveva mescolato i caratteri del personaggio del professore con quelli dello scrittore Leonardo Sciascia autore del romanzo da cui il film era stato tratto.
Io riuscii a contattarlo proprio per la mia tesi su Leonardo Sciascia.
Ero emozionato.  Mi tremava la voce all'inizio di quell ' intervista che mi concesse il 31 ottobre di quello stesso anno. Chi volesse la trova nel libro curato da Valeria Mannelli, Gian Maria Volonté.  L'immagine e la memoria,  Transeuropa Cineteca, 1998.
Per chi si accostasse ai film di Volonté per la prima volta consiglierei di vedere: "Per qualche dollaro in più" di Leone, "Banditi a Milano" di Lizzani,"Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto" e "La classe operaia va in paradiso"  di Petri, "Sacco e Vanzetti" di Montaldo, "Cristo si è fermato a Eboli" di Rosi, "Porte aperte" di Amelio.  Ma ovviamente il viaggio nel cinema di Volonté non si esaurisce con questi titoli. Come guida consiglio, oltre al libro già citato,   il documentario a lui dedicato da Alejandro de la Fuente,  "Indagine su un cittadino di nome Volonté",  edito Lucky Red insieme a un volume scritto da de la Fuente e Erickson Wilberding.  Da non dimenticare anche  il saggio di Deriu, Il lavoro dell'attore.
Sul web vi sono siti a lui dedicati e citazioni da film e interviste.  A voi il piacere della (ri) scoperta di questo splendido attore e di quest'uomo impegnato. Che ci manca.



giovedì 7 agosto 2014

The secret life of Walter Mitty. Al cinema per sognare ad occhi aperti




Uno dei piaceri dell'estate è quello del cinema sotto le stelle. 
Le arene estive permettono di recuperare film che si sono persi durante la stagione precedente, di vedere rassegne o festival all'aperto o di scoprire piccoli gioielli che si erano sottovalutati alla loro uscita.
Nel mio caso avevo dato poco peso al film diretto e interpretato da Ben Stiller, The secret life of Walter Mitty (Usa, 2013), in Italia uscito con il titolo di I sogni segreti di Walter Mitty. Non ero andato a vederlo, anche se a dire il vero il trailer mi aveva colpito per la qualità delle immagini e degli effetti speciali.
Trailer italiano




Il soggetto del film è tratto da un breve racconto umoristico pubblicato dallo scrittore James Thurber sul New Yorker nel 1939, si può trovare in inglese sul sito della rivista americana 
oppure tradotto in italiano nel volume omonimo edito dalla Bur che raccoglie anche altri testi dello stesso autore, qui sotto le copertine delle due edizioni  reperibili in libreria.


Il breve racconto fu già utilizzato molti anni fa per una commedia con Danny Kaye che in Italia uscì con il titolo di Sogni proibiti.


Un film che, a quanto ricordo di una lontanissima visione, credo fosse inferiore a questa sorta di remake che ne ha fatto Ben Stiller grazie al figlio del Goldwyn produttore della pellicola del 1947, ecco il trailer americano dell'epoca
Il film diretto e interpretato dal comico Ben Stiller mette in scena il daydreamer (sognatore ad occhi aperti) Walter Mitty che lavora da parecchi anni presso l'archivio fotografico di Life, una prestigiosa rivista americana che sta per essere fagocitata dall'onda del web e trasformata, dolorosamente per i lavoratori anche grazie a dei rozzi manager tagliatori di teste messi alla berlina nel film, in un sito.



 Dell'archivista Mitty, timido e introverso,  il film ci mostra nella prima parte i suoi sogni ad occhi aperti, di avventure mozzafiato, senza soluzioni di continuità con la realtà, giocando quindi con i passaggi repentini tra realtà quotidiana e sue fantasie. Notevoli, come apparivano dal trailer, gli elementi visivi e gli effetti speciali. Poi la storia, che non riassumerò per non togliere il piacere della scoperta a chi non l'avesse visto, prende una china di road movie e di film d'avventura reale e, nonostante qualche momento forse meno efficace, arriva sino alla fine dei suoi 114 minuti, donando allo spettatore dei bei  momenti di divertimento e di evasione. Ci sono diverse trovate cinematograficamente molto divertenti, a partire dai titoli di testa che si inseriscono  nel paesaggio inquadrato dal film.


Gli attori sono molto bravi, da Stiller la cui  imperturbabilità ricorda un po' il volto di Buster Keaton, per giungere al manager ottuso "rottamatore" Adam Scott o alla madre di Mitty, la grande Sherley MacLaine (classe 1934).
Insomma un film che vale la pena  ripescare in qualche cinema all'aperto o vedere in  dvd, magari approfittando della versione originale. 
Tra l'altro chi avesse letto L'inventore dei sogni (titolo originale: The daydreamer) di Ian McEwan forse troverà qualche elemento comune  tra Mitty e Peter Fortune.